Dopo Daredevil e Jessica Jones, arriva la terza serie tv targata Marvel/Netflix. Luke Cage, che aveva fatto il suo debutto ufficiale al fianco della badass di Hell’s Kitchen, ci porta ad Harlem, tra atmosfere cupe e musiche soul, all’insegna del black power.
Erano gli anni ’70 quando nacque un genere cinematografico chiamato blaxploitation, ideato appositamente per il pubblico afroamericano da registi afroamericani, con un unico scopo: dare voce e spazio ad una cultura fino ad allora emarginata e ignorata. Non è un caso che il fumetto Luke Cage uscì per la prima volta proprio in quegli anni, sfruttando la popolarità del genere. E non è un caso che Netflix abbia deciso di dare spazio a un eroe di colore, perlopiù sconosciuto ai non lettori di comic book. La grande forza della serie tv, uscita lo scorso 30 settembre e ideata da Cheo Hodari Coker, risiede proprio nell’intento di spiegare la cultura nera, raccontare il punto di vista della gente afroamericana, le loro difficoltà e le loro problematiche sociali, attraverso la musica, il cinema e la letteratura, citando autori come Walter Mosley o discutendo su Phil Jackson e Pat Riley. L’omaggio alla blaxploitation degli anni ’70 è evidente e assolutamente riuscito. Netflix ancora una volta decide di mettere al centro della storia chi solitamente sta ai margini. Perché se Jessica Jones era all’insegna del women power, con Luke Cage diventa centrale il black power. Il protagonista (Mike Colter), un ex carcerato in fuga, reso invincibile in seguito ad un esperimento, è un uomo solo, costretto a lottare contro il sistema, contro l’opinione pubblica e contro nemici, nuovi e vecchi. Luke Cage è un omaccione alto e grosso, con la pelle a prova di proiettile, che non vuole essere un eroe – eppure lo è di fatto – e che diventa simbolo del riscatto. Ovviamente, per ogni eroe che si rispetti, vi è la sua nemesi, che risponde al nome di Cornell “Cottonmouth” Stokes (Mahershala Ali), boss del crimine, il cui unico obiettivo è dare maggior potere alla sua gente, a qualunque costo. Al suo fianco, troviamo Mariah Dillard (Alfre Woodard), cugina di Stokes e politica locale, nonché complice dei traffici del cugino. La corruzione presente a Hell’s Kitchen, ritorna anche ad Harlem, spesso messa in atto e associata a personaggi bianchi, in netto contrasto con la giustizia e l’importanza dei valori espressa dai neri. Ma anche la vendetta ricopre un ruolo fondamentale, così come l’invidia e l’ira che acceca e impedisce ai personaggi di raggiungere i loro scopi, in una serie ricca di citazioni e riferimenti biblici.
In tredici episodi, come sempre studiati come fossero un unico lungo film, Luke Cage riesce a coinvolgere ed emozionare, attraverso personaggi ben scritti e una colonna sonora strepitosa, che fonde il funky anni ’70 con l’hip hop di oggi. Ma è sul piano prettamente tecnico che arriva qualche nota dolente. Se dal punto di vista dei contenuti Luke Cage fa un lavoro eccelso, è la forma che spesso non riesce ad essere così incisiva. La messa in scena risulta perlopiù canonica, nonostante alcuni virtuosismi concessi dalla regia, insieme alla rottura della quarta parete. Anche il montaggio non sempre risulta preciso e curato, così come la sceneggiatura, a volte banale e prevedibile. Luke Cage, insomma, non riesce ad osare, e soprattutto nella prima parte sembra sentire il peso della grandezza dei suoi predecessori, con i quali si ritrova a confrontarsi – i riferimenti all’universo Marvel e a Hell’s Kitchen in particolare sono tanti. È nella seconda parte invece che lo show esprime meglio il suo potenziale grazie ad alcuni colpi di scena molto efficaci, l’inserimento di flashback e l’introduzione di nuovi personaggi, che arricchiscono la scena.
Mike Colter è un perfetto Luke Cage: nonostante non sia particolarmente espressivo, l’attore dà il meglio di sé nelle scene d’azione, esprimendo tutta la forza e potenza del personaggio. Intorno a lui, ruota un cast di grande livello: da Simone Missick, nei panni della detective cazzuta Misty Knight a Mahershala Ali, nel ruolo di Cottonmouth (a volte un po’ sopra le righe), e ancora Alfre Woodard, la consigliera corrotta che nasconde un’anima oscura. Meritano menzione speciale Rosario Dawson, che ritroviamo nel ruolo della bella e brava infermiera; e Theo Rossi, nei panni del pericoloso criminale Shades, che riesce a spiccare – e spesso perfino oscurare Mahershala Ali – con una recitazione compassata e controllata. Il suo è uno dei personaggi più interessanti e meglio riusciti della serie, e di gran lunga il miglior villain.
Netflix riconferma, dunque, qualora ce ne fosse ancora bisogno, il trend positivo con un’altra serie assolutamente di livello, che nonostante non spicchi per originalità, dimostra di avere una propria identità ben distinta, un’anima nera che pulsa, forte e potente.