La sindrome di Wikipedia, a stretto giro di posta, attanaglia un po’ tutti, dal più grande al più piccolo. Ed è per il mezzo di questa singolare e sempre più diffusa patologia che la Gente che mi sta accanto mi chiede: “Lo posso andare a vedere con un ragazzino di 11 anni?“.
Il complemento oggetto di questa domanda – potenzialmente innocua – è una pellicola, Lo chiamavano Jeeg Robot, nelle sale da recentissimo tempo, nelle televisioni da troppo. Perchè oramai sempre più legato alla diffusione mass-mediatica, il destino di un film dipende tristemente da quante apparizioni e visualizzazioni se ne facciano in giro per il web.
E non a caso si è prima citata Wikipedia, senza nasconderne il pericolo di deviazione che ne possa derivare, in quanto il fatto che il titolo del film rimandi al nome di un eroe, non significa che lo stesso sia improntato a dinamiche Marvel.
In tutta onestà, azzardato pare l’accostamento a due micro (?) universi come quello dei manga e il sopracitato Marvel, ma proprio per questo piace pensare che Gabriele Mainetti sia riuscito a fare di un Claudio Santamaria inetto, incapace e inopportuno, l’eroe della vaschetta al gusto vaniglia.
E non solo! Si urli e si gridi, quasi fosse uno scandalo, che l’interpretazione migliore del film vada a Ilenia Pastorelli, ai più nota come concorrente del Grande Fratello, un reality show – mi dicono – di dubbia qualità, ma di enorme valore quanto alle fonti trash da dover conoscere per avere una più ampia visione possibile del movimento telesivo cinque stelle lusso dei mass media italiani.
Il cattivo (per dovere di cronaca va citato un augens Luca Marinelli) stavolta non è costruito sugli antichi e nobili ideali degli anni ’90, ma è un ragazzo cresciuto con il mito dell’apparenza ad ogni costo, disturbato nei suoi comportamenti (è vero! Ma chi siamo noi per giudicare?!), ma mai ai livelli potenzialmente raggiungibili – si presume – dalla nuova generazioni di cattivi che sta crescendo chiusa in casa a vedere come papà Pig riesca a petare e ruttare nello stesso momento.
Di matrice prettamente coatta, il film abbina risate, colonna sonora amarcord e situazioni paradossali, volutamente tali da poter uscire dalle sale con qualcosa da dover canticchiare a tutti i costi. Lo splatter esagerato nei modi e nelle figure sembra accostarsi in modo delicato a dinamiche tarantiniane – quindi, collegabili al mondo delle spade e dei samurai, anche se manca la tuta gialla -, la scrittura è semplice e scontata, così da non dover essere il punto forte.
Resta da capire se la pellicola possa fare centro fuori dal Grande Raccordo Anulare, perché fotografia di un vissuto che tante volte non riesce ad arrivare in periferia: sono da Oscar gli illustri precedenti in cui, guarda caso, recita lo stesso Marinelli, non a caso deviato anche in quell’occasione (Caos è l’anagramma di caso).
Ma, del resto, si presume come questo sia in parte uno dei risultati voluti dal movimento cinematografico, capace di riconoscere il valore culturale aprioristicamente ad ogni film, salvo poi smentirsi nei fatti: se la stessa radice può pronunciarsi in due maniere diverse, d’altronde, un motivo ci sarà.